Obamagate
Gli sforzi di Obama e Biden per tenere aperta l’indagine su Flynn (assegnatela alle “persone giuste”), nonostante l’FBI avesse praticamente già chiuso il caso, per l’assenza di un qualsiasi elemento di prova, e Comey ritenesse “legittime” le telefonate di Flynn con l’ambasciatore russo Kislyak
Al contrario del Russiagate, che per mesi i nostri media ci hanno raccontato per filo e per segno, prendendo per oro colato gli articoli del New York Times e del Washington Post – salvo poi dimenticarsene una volta conclusa nel nulla l’inchiesta del procuratore speciale Mueller – dell’Obamagate, o Spygate, non tengono nemmeno traccia. Costretti a parlarne quando nel settembre scorso l’Attorney General Barr e il procuratore Durham sono venuti a Roma per incontrare i vertici dei nostri servizi, l’hanno liquidato come un’operazione dell’amministrazione Trump per infangare Obama, senza minimamente entrare nel merito dei fatti.
Per non parlare dell’ex generale Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale della nuova amministrazione e prima figura illustre del team Trump ad essere bruciata nella caccia alle streghe del Russiagate, con l’accusa non di collusione con la Russia, ché di quella non c’è mai stata la minima ombra, ma di aver mentito agli agenti dell’FBI che lo interrogarono il 24 gennaio 2017. Chi l’ha più sentito nominare dai media italiani, oggi che sta per essere completamente riabilitato?
Ieri, la Corte d’appello degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia ha ordinato al giudice del caso, Emmet Sullivan, di prosciogliere Flynn come richiesto dalla pubblica accusa, ritenendo che la decisione di Sullivan di commissionare all’ex giudice federale John Gleeson una memoria “amicus curiae” in opposizione alla richiesta, sia una intromissione della corte nelle decisioni del ramo esecutivo, a cui spetta l’esercizio dell’azione penale, in violazione del principio della separazione dei poteri. Ricordiamo infatti, che a seguito di una revisione del caso, il Dipartimento di Giustizia ha deciso di far cadere le accuse, avendo concluso che non c’erano basi investigative legittime per interrogare Flynn, e quindi qualunque affermazione inesatta o falsa dichiarazione abbia reso nell’interrogatorio del 24 gennaio, non poteva essere rilevante ai fini di una indagine. Non è ancora detto che sia stata scritta la parola fine nelle aule di tribunale, ma è ormai appurato dagli elementi che sono emersi nelle ultime settimane che l’ex generale è stato incastrato.
L’ultima importante rivelazione, di ieri, punta dritto verso la Casa Bianca. Avevamo già raccontato del meeting tenutosi nello Studio Ovale il 5 gennaio 2017 come evento chiave per comprendere perché l’indagine su Flynn fu tenuta aperta, pur senza giustificato motivo legale, e come si arrivò all’interrogatorio-trappola del 24 gennaio.
Le note divulgate questa settimana dal Dipartimento di Giustizia, e allegate ieri dalla difesa di Flynn in una istanza alla corte, sono scritte dall’agente dell’FBI Peter Strzok e si riferiscono proprio a quel meeting del 5 gennaio al quale parteciparono, oltre al presidente Obama, anche il vicepresidente Biden, il direttore dell’FBI Comey, la vice Attorney General Sally Yates e presumibilmente anche l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice. Che il meeting abbia avuto effettivamente luogo è noto da tempo sia dalle testimonianze di Comey e Yates, che da una strana email di appunti spedita dalla Rice a se stessa il giorno dell’insediamento di Trump, cioè due settimane dopo, ma ci torneremo.
Sally Yates dichiarò al team del procuratore speciale Mueller di aver appreso delle telefonate di dicembre tra Flynn e Kislyak, e del loro contenuto, dal presidente in persona, e di esserne rimasta “sorpresa”. E ricordò che Obama disse di voler “essere sicuro che, mentre ci impegniamo con la squadra entrante, siamo attenti nell’accertare se c’è qualche motivo per cui non possiamo condividere completamente le informazioni per quanto riguarda la Russia”.
Bisogna tenere in considerazione il contesto di quei giorni. Il giorno precedente, il 4 gennaio, l’ufficio di Washington dell’FBI raccomandava nel suo rapporto conclusivo la chiusura dell’indagine di controintelligence Razor, il filone sull’ex generale Flynn aperto sei mesi prima, ad agosto 2016, perché nulla di illecito o inappropriato era emerso (“no derogatory information”), nemmeno dalle sue conversazioni con Kislyak. Quello stesso giorno, nel primo pomeriggio, fu l’agente Strzok a chiedere e a ottenere dal collega “case manager” che l’indagine restasse aperta, come risulta dai suoi sms: “Hey if you haven’t closed RAZOR, don’t do so yet”, facendo riferimento ad una volontà in tal senso del settimo piano (quello dei vertici dell’FBI): “7th floor involved”.
Il giorno successivo, il 5, è quello del meeting alla Casa Bianca. Gli appunti manoscritti di Strzok – aggiornato sui contenuti dell’incontro probabilmente da Comey o dal vicedirettore McCabe – mostrano un ruolo chiave del presidente Obama. Non solo risulta personalmente coinvolto nella discussione degli aspetti più significativi dell’indagine che riguardava il massimo consigliere di politica estera del presidente eletto, suo avversario politico. Ma lo stesso Obama avrebbe ordinato al direttore dell’FBI e alla vice AG Yates di continuare ad indagare su Flynn per le telefonate con l’ambasciatore russo, raccomandando di assegnare al caso “le persone giuste”. “P: Make sure you look at things and have the right people on it (metterci le persone giuste, ndr)“, annota Strzok. Nonostante l’FBI il giorno prima fosse pronta a chiudere il caso e il direttore Comey, sempre secondo quanto annotato da Strzok, avesse fatto presente che quelle conversazioni apparivano “legit” (“legittime”).
Sappiamo già dalle rivelazioni delle ultime settimane che quelle conversazioni erano totalmente legittime, ma fa un certo effetto avere conferma che il direttore dell’FBI ne fosse consapevole, tanto da farlo presente alla Casa Bianca, già il 5 gennaio 2017, quindi diverse settimane prima di spedire i suoi agenti a interrogare Flynn proprio su quelle chiamate.
Avendo già le trascrizioni, e avendo concluso che erano “legittime”, su quali basi l’agente Strzok, apparentemente per volontà dei vertici dell’agenzia, interveniva il 4 gennaio per tenere aperta l’indagine? E su quali basi interrogare Flynn, se tra il 5 e il 24 gennaio nulla di nuovo sarebbe emerso? È la prova che l’FBI non aveva alcuna base legale e legittimo motivo investigativo che giustificasse quell’interrogatorio. Lo scopo era unicamente quello di indurre l’ex generale in contraddizione e incastrarlo, come si evince dalle note scritte da Bill Priestap il giorno stesso: “Qual è il nostro obiettivo? Verità/confessione o farlo mentire, così possiamo perseguirlo o farlo licenziare?”.
E fa un certo effetto anche se ricordiamo la campagna di leak illegali che da quei giorni in poi, per mesi, sulla base di quelle telefonate, avrebbe alimentato il caso Russiagate e portato alla nomina di un procuratore speciale, danneggiando l’amministrazione Trump.
Ma dagli appunti di Strzok emerge per la prima volta il pieno coinvolgimento anche del vicepresidente Joe Biden, oggi candidato alla Casa Bianca.
La sua stessa presenza al meeting di quel 5 gennaio dimostra che era a conoscenza degli aspetti più significativi dell’indagine su Flynn, mentre solo un mese fa dichiarava in una intervista alla Abc di non saperne nulla: “I know nothing about those moves to investigate Michael Flynn”. Non solo ne era a conoscenza, ma secondo le note di Strzok sarebbe stato proprio Biden a menzionare esplicitamente il Logan Act, una legge di fine ‘700, per la quale non è mai stato incriminato nessuno e ritenuta incostituzionale, che vieta ai cittadini americani non autorizzati di interferire in dispute e affari tra il governo e uno stato estero. Non essendo emerso nulla dal punto di vista della sicurezza nazionale dalle telefonate con Kislyak, serviva un pretesto per tenere aperta l’indagine. E in effetti l’ipotesi di una violazione del Logan Act da parte di Flynn per le sue chiamate con l’ambasciatore russo sarebbe stata ampiamente dibattuta sulla stampa nei giorni successivi. Ipotesi assurda, ancor più perché Flynn si apprestava a diventare consigliere per la sicurezza nazionale. Secondo quanto dichiarato dalla vice AG Sally Yates, invece, fu il direttore Comey a tirare fuori il Logan Act.
C’è una discrepanza su un punto sostanziale, il tono delle raccomandazioni del presidente Obama, anche tra le note di Strzok e il promemoria che il consigliere Susan Rice scrisse dell’incontro del 5 gennaio in una email indirizzata a se stessa il giorno dell’insediamento di Trump, il 20 gennaio, quindi ben due settimane dopo, su istruzione dell’ufficio legale della Casa Bianca. “Assicuratevi di metterci le persone giuste”, come annotato da Strzok, suona molto diverso da procedete “come da manuale”, come riportato dalla Rice nei suoi appunti.
Come si vede, le versioni dell’incontro differiscono a seconda della fonte: nei resoconti dei più stretti collaboratori di Obama viene enfatizzato il ruolo di Comey e “neutralizzato” quello del presidente; nelle testimonianze dell’ex direttore e nelle note degli agenti, al contrario, appaiono prevalenti le indicazioni di Obama e del suo vice.
Ma la sostanza di quanto avvenne alla Casa Bianca quel 5 gennaio non cambia: il presidente Obama, il vice Biden, il direttore dell’FBI Comey, la vice Attorney General Sally Yates e il consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice discussero delle trascrizioni delle telefonate tra Flynn e Kislyak e di come procedere contro l’ex generale. Con “le persone giuste”, avrebbe raccomandato il presidente. Nonostante l’FBI avesse praticamente già chiuso l’indagine per l’assenza di prove e Comey avesse fatto presente che quelle conversazioni apparivano “legittime”. Secondo le note di Strzok, sarebbe stato il vicepresidente Biden a tirare fuori l’idea del Logan Act, evidentemente un pretesto, in assenza di altri elementi, per tenere aperta l’indagine fino all’interrogatorio-trappola del 24 gennaio.
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