Modello Cina

 Preparatevi, voi che inneggiate a Biden

Voi che credete in un fantomatico "vaccino" ignorando il fatto che sarà un modificatore genetico 

Voi che avete fiducia in un governo che ci ha traditi tutti 

Voi, piccoli energumeni che non avete capito che tutto, tutto è solo mero business

Preparatevi e attenti a non sbagliare, questo a breve sarà il mondo in cui tutti vivremo: il modello Cina fortemente voluto dal nuovo ordine mondiale 

Da un servizio delle Iene 

È parte della strategia cinese etichettare come terrorismo tout-court una richiesta di diritti culturali”, ci dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Da qui questa politica di chiuderli in luoghi eufemisticamente chiamati Centri per la formazione professionale che sono campi di concentramento veri e propri”.


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Lo sfruttamento degli uiguri dietro il business del cotone cinese

Oltre mezzo milione di uiguri costretto dalle autorità cinesi a lavorare il cotone nei campi dello Xinjiang, regione fondamentale per la Via della Seta. Intanto, in Danimarca si dimette un manager Huawei, dopo le accuse all’azienda di usare il riconoscimento facciale per scovare le minoranze. 

Più di mezzo milione di uiguri e di persone di altre minoranze etniche sono stati costretti ai lavori forzati nelle piantagioni di cotone dello Xinjiang, regione nord-occidentale cinese fondamentale snodo della Via della Seta vista la sua posizione geografica.

È quanto risulta da un rapporto pubblicato dal Center for Global Policy, in cui l’autore, il professor Adrian Zenz, rivela l’esistenza di prove significative di “violazioni dei diritti umani”, con sospette pratiche di lavoro forzato ai danni degli uiguri e di altre minoranze musulmane turche. La regione dello Xinjiang produce più del 20% del cotone mondiale e l’84% per cento di quello cinese. Come ricorda l’Agenzia Nova, le rivelazioni arrivano dopo che la Corte penale internazionale ha affermato di non avere la giurisdizione per indagare sulle accuse di crimini contro l’umanità e genocidio nello Xinjiang non avendo mai la Cina (che rifiuta gli osservatori internazionali nella regione) aderito a questo tribunale.

Pochi giorni fa l’amministrazione statunitense di Donald Trump aveva annunciato la decisione di bloccare l’importazione di cotone e prodotti lavorati da una potente organizzazione paramilitare cinese dello Xinjiang. Il professor Zenz ha analizzato i documenti del governo e i resoconti dei media cinesi arrivano alla conclusione che che probabilmente le autorità hanno usato presunti “programmi di trasferimento di manodopera” coercitivi per portare centinaia di migliaia di persone a raccogliere il cotone. Si presume che il programma cinese di trasferimento di manodopera faccia parte della massiccia campagna del governo per alleviare la povertà, ma sempre più sono le prove che indicano che sia pensata per gli uiguri e le altre minoranze musulmane nello Xinjiang. I “lavoratori” trasferiti vengono spesso mandati lontano da casa, costretti a vivere in loco nelle fabbriche e sottoposti a formazione ideologica, come hanno raccontato Le Iene con la testimonianza di un’ex prigioniera, una dei tanti uiguri che, come denunciato da Amnesty International, vengono ancora minacciati dalle autorità dopo aver lasciato i campi e trovato rifugio all’estero.

La questione uigura è tema di dibattito anche in Occidente. Un tema che si è riacceso dopo le recenti rivelazioni del Washington Post secondo cui Huawei avrebbe messo a punto un software per il riconoscimento facciale specializzato nell’identificazione dei tratti somatici tipici della minoranza islamica. Accuse respinte dell’azienda. Ma il terremoto c’è stato. Prima il calciatore francese Antoine Griezmann ha annunciato di avere posto un “termine immediato alla partnership con Huawei”, spiegando di avere “forti sospetti” su un ruolo del colosso cinese delle telecomunicazioni sulla sorveglianza digitale e quindi sulla persecuzione degli uiguri, la minoranza musulmana. Più recentemente un manager del ramo danese del gruppo si è dimesso: si tratta di Tommy Zwicky, vicepresidente di Huawei Denmark, che in un post su Twitter (poi cancellato ma ripreso dai media locali) si è trincerato dietro un no comment sulla questione uigura spiegando che è “il motivo per cui mi sono dimesso”.


DITTATURA SANITARIA IN CINA 

L’epidemia di coronavirus sta inducendo anche i governi più democratici ad assumere atteggiamenti autoritari. Ma nei regimi autoritari, la pandemia è stata una vera manna: l’occasione per scatenare la repressione contro tutti i nemici interni. Ciò è particolarmente evidente in Cina, dove la dittatura si è ulteriormente inasprita per ragioni sanitarie.

A farne le spese è stata, per prima, la religione. Il Covid ha dato al regime di Pechino il pretesto per chiudere le chiese, fra i primissimi luoghi pubblici ad essere chiusi, assieme a templi buddisti e taoisti e luoghi di culto delle religioni tradizionali. Come abbiamo già riportato su queste colonne, la riapertura delle attività religiose, dopo la fine del lockdown, è arrivata tardi e solo a determinate condizioni dettate dallo Stato. Non solo condizioni di sicurezza sanitaria, ma anche e soprattutto politiche: adeguarsi alla “sinizzazione” della religione, con alzabandiera, prediche controllate dallo Stato e sessioni di propaganda. Ora il salto di qualità di questa politica è che viene applicato anche alle scuole in cui insegnano docenti stranieri. Molti di loro si sono visti il contratto cancellato dopo il periodo di chiusura. Un pastore protestante americano a Chongqing, che ha conservato l’anonimato, sentito dal quotidiano South China Morning Post, non solo non è stato rinnovato, dopo cinque anni di insegnamento, ma ha assistito anche alla rimozione di oltre 200 testi in inglese che aveva donato al suo istituto. Fra questi anche libri di autori “all’indice” per motivi religiosi, come Dietrich Bonhoeffer e CS Lewis.

Secondo le normative in progetto, contro il proselitismo, gli insegnanti dovranno sottostare a un corso di indottrinamento della durata di 20 ore, imparando “sviluppo, leggi, etica del lavoro e politica dell’istruzione della Cina”. I curriculum dei candidati saranno passati al vaglio con grande attenzione da commissioni politiche, per verificare che non facciano proseliti religiosi e non diffondano gli xie jiao, gli “insegnamenti eterodossi”, come vengono chiamate tutte le religioni illegali. La proposta include anche l’estensione agli insegnanti stranieri del sistema di crediti sociali, una vera “patente a punti” della cittadinanza, con cui i cinesi sono tuttora giudicati in ogni loro azione quotidiana. C’è anche chi è più realista del re, come l’amministrazione della provincia dello Hainan, che offre una taglia equivalente di 14mila euro per chi denuncia stranieri impegnati in “attività religiose esercitate senza permesso”.

Il Covid ha fornito anche il pretesto per rinviare le elezioni a Hong Kong, dove avrebbe dovuto essere rinnovato il Consiglio Legislativo domenica scorsa. La cancellazione delle elezioni è servita, a sua volta, per far emergere gli oppositori, con le loro proteste, e arrestarli, sulla base della nuova Legge per la sicurezza nazionale, che permette di interpretare in modo molto ampio le categorie di sovversione punite. Il primo a cadere in questa trappola è stato Tam Tak-chi, ex presentatore radiofonico e ora leader del movimento Potere Popolare. Tam è stato arrestato qualche ora prima della manifestazione organizzata dall’opposizione per protestare contro la sospensione delle elezioni. L’accusa è quella di aver “pronunciato parole sediziose”. In base alla nuova legge, scritta direttamente a Pechino e imposta a Hong Kong il 30 giugno, 21 persone sono state arrestate per sedizione, compreso l’imprenditore ed editore cattolico Jimmy Lai, fervente sostenitore delle riforme democratiche, ed Agnes Chow, leader femminile della protesta del 2019.

La manifestazione di protesta contro il rinvio del voto è stata anch’essa repressa dalla polizia anti-sommossa. Gli agenti hanno arrestato circa 300 persone, di cui 270 per “assemblea illegale” e per aver violato la normativa anti-Covid che vieta gli assembramenti. La Lega dei democratici sociali, gruppo di opposizione fra i più attivi, denuncia l’arresto di tre dei suoi membri più importanti: Leung Kwok-hung, Raphael Wong e Figo Chan. Nel disperdere la folla gli agenti sono sempre più violenti, hanno metodi meno britannici e più cinesi. In questo caso hanno fatto il giro del mondo di una bambina di 12 anni strattonata e buttata a terra dai poliziotti. Secondo la polizia, la giustificazione per un’azione simile è che la bambina aveva “un’aria sospetta”.

La pandemia, infine, è stata all’origine del giro di vite che Pechino ha dato alla stampa straniera. Secondo il Club dei corrispondenti esteri in Cina, nei primi otto mesi del 2020 sono 17 i giornalisti espulsi. Gli ultimi in ordine di tempo sono due australiani, Bill Birtles della Abc australiana e Michael Smith dell’Australian Financial Review. Prima che si ottenesse il loro rimpatrio i due giornalisti sono stati presi di mira dai servizi di sicurezza cinesi, con ispezioni nel cuore della notte. E sono poi stati interrogati a lungo dalla polizia cinese, senza alcun funzionario australiano presente. I due australiani erano indagati nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto della giornalista Cheng Lei, cittadina australiana, presentatrice della Tv China Global Television Network. Il 14 agosto era letteralmente scomparsa. La polizia ha poi rivelato che fosse detenuta in una località segreta e tuttora non si sa ancora di cosa sia accusata, se non che il suo arresto improvviso è legato a “questioni di sicurezza nazionale”. C’è un motivo politico per cui fra Cina e Australia non scorre buon sangue (a dire il meno): l’Australia si è esposta in prima linea, in ambito internazionale, per chiedere un’indagine sull’origine del coronavirus in Cina.


LA CINA “SI COMPRA” LA PAPUA NUOVA GUINEA. 

Potrebbe apparire una notizia del tutto marginale quella relativa al fatto che la Cina intenderebbe porre in essere un impianto di lavorazione del pesce costruito dalla Fujian Zhonghong Fishery Company, un’operazione da 204 milioni di dollari in Papua Nuova Guinea situato guarda caso vicino alla terraferma australiana. Tuttavia questa informativa riveste una certa rilevanza geopolitica, per tre semplici ragioni.
In primo luogo perché questo accordo è finalizzato a consolidare la Nuova via della seta nel contesto dell’Indo-Pacifico; in secondo luogo perché consentirebbe su medio termine alla Cina di poter costruire infrastrutture portuali che fungerebbero da cavalli di Troia per la proiezione di potenza cinese a livello marittimo in funzione anti-australiana, dal momento che la zona geografica in cui si troverebbe l’impianto sarebbe molto vicina a Cape York; in terzo luogo perché la Cina si è spesso servita dei pescherecci per coprire azioni di spionaggio elettronico.
A tale proposito non dobbiamo dimenticare che proprio l’Australia ha avviato un progetto fondamentale a livello di infrastrutture telecomunicative, e cioè il progetto Corale Sea Cable, ovvero https://www.coralseacablesystem.com.au
un cavo sottomarino di 4700 km che dovrebbe rendere più rapide le comunicazioni tra la Papa Nuova Guinea, le isole Salomone e l’Australia. Non devono allora sorprendere le reazioni pienamente legittime da parte sia del ministro degli Esteri australiano Marise Payne, che ha sostenuto la necessità che le navi australiane dovranno monitorare da vicino la regione della Papa Nuova Guinea, sia quella del senatore Rex Patrick che ha sottolineato come la costruzione di una tale infrastruttura determinerebbe importanti problemi di sicurezza per l’Australia.
E’ quindi importante chiedersi quale relazione esista a livello politico ma soprattutto economico tra la Cina e la Papua Nuova Guinea.
Lo stato in rapido deterioramento dell’economia della Papua Nuova Guinea sta avvantaggiando la strategia del debito cinese. Infatti il deficit di bilancio della Papua Nuova Guinea dovrebbe superare 2,7 miliardi di dolalri con un budget di spesa totale di 7 miliardi. Di fronte a queste cifre è evidente che allo stato attuale il governo della PNG non sia ancora riuscito a finanziare completamente il deficit. Inevitabile allora diventa l’aiuto da parte della Cina. Il ministro delle imprese statali, Sasindran Muthuvel, ha recentemente rivelato che la PNG deve alla Cina, principalmente attraverso la Exim Bank of China, più di 621 milioni di dollari australiani solo per progetti di comunicazione, la maggior parte dei quali sono stati eseguiti da Huawei. La società di comunicazioni di proprietà del governo, Telikom PNG, sta registrando pesanti perdite operative legate ai progetti realizzati da Huawei. I suoi debiti sarebbero superiori ai 777 milioni di dollari. Al totale del debito va aggiunto anche il prestito Exim Bank da 75 milioni di dollari australiani per il data center nazionale della PNG, costruito da Huawei. Ed anche il progetto di documento d’identità nazionale della PNG, finanziato dalla Cina. Insomma, nella sola area delle comunicazioni l’importo dovuto alla Cina, principalmente attraverso Exim Bank, è di circa 1,2 miliardi di dollari australiani.
Ma le comunicazioni sono solo una delle aree in cui la “diplomazia della trappola del debito” cinese sta influenzando la PNG. Il quadro sembra molto più critico quando si includono la costruzione di strade, porti e aeroporti.
Sono in corso i lavori per lo sviluppo dell’aeroporto internazionale di Kavieng nella Nuova Irlanda per un costo di quasi 200 milioni di sterline (78 milioni di dollari australiani). E continuano i lavori per la riqualificazione della vitale Highlands Highway, con un costo di quasi 194 milioni di dollari australiani. Entrambi i progetti sono realizzati da società statali cinesi. E che dire poi del progetto da parte del gruppo cinese Shenzhen Energy e Sinohydro per costruire l’infrastruttura idroelettrica denominata Ramu 2? Il progetto, che costerà almeno 3,1 miliardi di dollari australiani ha dovuto essere garantito dal governo della PNG grazie al prestito da parte della Cina. Nonostante il progetto sia stato bloccato e nonostante le forti pressioni esercitate dal governo australiano, questo enorme impegno infrastrutturale continua ad avere un forte sostegno all’interno del governo della Papua Nuova Guinea e da parte dell’ambasciata cinese.

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La Repubblica Popolare Cinese è uno dei paesi in cui è applicata la pena di morte come sanzione prevista dal codice penale.

Secondo Amnesty International[1], sebbene in mancanza di dati oggettivi che, secondo la stessa Ong, il paese ha più volte rifiutato di diffondere, la Cina è il paese col maggior numero (migliaia) di esecuzioni capitali, seguita dall'Iran.

È stato di contro sostenuto che una piena conoscenza del fenomeno è impossibile, sia a causa del forte controllo governativo sull'informazione, sia a causa della struttura non centralizzata (almeno a questi fini) del sistema giudiziario nazionale, essendo le pene capitali irrogate autonomamente da tribunali la cui giurisdizione è paragonabile per estensione e abitanti ad una media regione italiana. La maggior parte delle informazioni derivano infatti da studi di organizzazioni non governative come Amnesty o Nessuno tocchi Caino e i dati sono assai differenti tra i rapporti pubblicati dalle varie organizzazioni.

Applicazione della pena di morteModifica

Queste sono le esecuzioni rese pubbliche dai tribunali cinesi o dal partito e pubblicate da Amnesty International:

  • 1993: 3.760 condanne, di cui 1.831 eseguite
  • 1994: 2.496 condanne, di cui 1.791 eseguite
  • 1995: 3.612 condanne, di cui 2.535 eseguite
  • 1996: 6.101 condanne, di cui 4.367 eseguite
  • 1997: 3.152 condanne, di cui 1.876 eseguite
  • 1998: 2.701 condanne, di cui 1.769 eseguite
  • 1999: 2.088 condanne, di cui 1.236 eseguite
  • 2000: 1.939 condanne, di cui 1.356 eseguite
  • 2001: 4.015 condanne, di cui 2.468 eseguite
  • 2002: 1.921 condanne, di cui 1.020 eseguite
  • 2003: 1.639 condanne, di cui 726 eseguite
  • 2004: 6.000 condanne, di cui 3.500 eseguite

Questi dati sono incompleti, perché in Cina la pena di morte è un segreto di Stato e i tribunali pubblicano solo parte delle sentenze. Il numero di esecuzioni riferito da Chen Zhonglin (delegato dell'Assemblea nazionale del popolo nel marzo 2004) è di circa 10.000 all'anno e dal 1998 al 2001, durante la campagna "colpire duro" erano state giustiziate 60.000 persone, ovvero 15.000 all'anno. Successivamente sono trapelate altre notizie: il 27 febbraio 2006 viene riferito che avvengono 8.000 esecuzioni all'anno; il 15 marzo 2007 Liu Jiachen, ex parlamentare, dice che il numero di condanne a morte nel 2006 in Cina è il più basso degli ultimi 10 anni; il 7 giugno 2007 John Kamm, presidente della fondazione Dui Hua annuncia che le esecuzioni negli ultimi anni sono diminuite del 40% circa (probabilmente dal 2001, quando Pechino è stata decisa sede delle Olimpiadi) per un totale di circa 7.500 all'anno (evitando, di conseguenza, l'uccisione di 25.000 persone), mentre rispetto a 10 anni prima sono diminuite addirittura del 50% (erano dunque 15.000 all'anno); il giorno seguente il presidente della Corte suprema del popolo cinese rende noto che le esecuzioni nei primi 5 mesi dell'anno sono state inferiori del 10% rispetto agli stessi del 2006; il 28 marzo 2008 la fondazione Dui Hua riferisce che le persone giustiziate nel 2007 sono state circa 6.000, ovvero il 25/30% in meno rispetto al 2006.

Tra i tanti : 

  • uscita da quarantena mentre si ha la SARS o diffusione del virus.
  • Il codice penale cinese del 2005 è liberamente consultabile: Humanrights
  • Consiglio di seguire questo sito CHINA-FILES 

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