Draghi :Il collasso della Grecia e le responsabilità di Mario Draghi
Il banchiere che prima affosso l'Italia (con le privatizzazioni) e la Grecia e poi le salvò alla Bce, evitando il fallimento dell'euro con il bazooka.
La verità è che Mario Draghi è forse il meno italiano tra i potenti del nostro Paese. Prima di tutto, perché ha uno standing internazionale riconosciuto. Tant’è che è bastato fare il suo nome – il governo arriverà, stiamone pur certi – perché lo spread precipitasse e le borse brindassero. Equita ha già fatto una lista delle azioni da acquistare sotto l’esecutivo del Divino.
I Cinque Stelle stanno facendo i Pierini ma si sono autoesclusi da qualsiasi logica di potere, dimostrando una volta di più che le scuole (quelle di politica o le università più prestigiose) sfornano élite proprio perché sono esclusive e permettono una selezione che l’uno vale uno ha scaricato con lo sciacquone. Ma dunque, chi è Mario Draghi?
Sulla sua infanzia difficile è meglio non indugiare troppo: orfano di entrambi i genitori prima di compiere i 16 anni, gli studi dai Gesuiti (il suo compagno di banco era Giancarlo Magalli), la laurea in economia a Roma e il Phd al Mit di Boston sotto la supervisione di due premi Nobel: Roberto Solow e Franco Modigliani. La crema del pensiero economico contemporaneo. È stato poi professore per quasi un ventennio ma dal 1983 in poi ha iniziato a sentire il richiamo della politica e del potere, quello vero. Divenuto consigliere del ministro Giovanni Goria nel primo governo Craxi, dal 1984 al 1990 è stato direttore esecutivo della Banca Mondiale. Un'escalation, appunto.
Ma è dal 1991 che Draghi inizia a mostrare che cosa può fare: viene chiamato dall’allora ministro Guido Carli a fare il direttore generale del Tesoro, su suggerimento del governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Ed è qui che la storia si fa un po’ più spessa. Nel 1992, a bordo della nave Britannia, partecipa a un summit divenuto celeberrimo – e che ha permesso di alimentare la mistica sul Draghi trafficone al servizio dei poteri forti – in cui si chiede di fatto all’Italia, per restare in Europa e poter ambire (dieci anni dopo) a entrare nell’euro, di abbattere un debito pubblico che i favolosi anni ‘80 hanno fatto schizzare al 125% del Pil.
E Draghi fa l’unica cosa che si può fare: avviare le privatizzazioni. Iniziando a spolpare l’Iri dei gioielli della corona: Eni, Enel e, soprattutto, l’allora Sip. Sulla compagnia di telecomunicazioni si potrebbero scrivere interi volumi. Ma è bene soltanto ricordare che l’azienda venne prima data in gestione al famoso “nocciolino duro” degli Agnelli e poi, nel 1999, ceduta per oltre il 51% ai bresciani Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Una serie di cessioni, rimpalli, rimbalzi di responsabilità che ha portato a decuplicare il debito, a ridurre del 40% gli investimenti industriali e a bruciare oltre 70mila posti di lavoro. Non esattamente un successone.
Telecom in quegli anni era ancora un’azienda ad azionariato diffuso e il Tesoro deteneva il 3,5% delle quote. Con la golden share, inoltre, avrebbe potuto opporsi alla vendita. Ma non lo fece, preferendo rimanere neutrale.
Vito Gamberale, manager ai vertici di grandi aziende come Eni, Autostrade e la stessa Telecom, raccontò nel 2015 la sua versione: "Dopo aver portato la Telecom nel ’97 al successo mondiale Ernesto Pascale fu mandato via dall’oggi al domani perché si opponeva alla privatizzazione di Telecom. E mi dispiace ricordare che a mandarlo via, perché anche gli uomini illustri fanno degli errori, furono Ciampi e Draghi".
A quanto ci risulta da fonti qualificate, Draghi si sarebbe opposto alla cessione di una quota così consistente di Sip, sostenendo che per il controllo sarebbe bastato un 30%. Non venne ascoltato, ed è probabilmente la prima (e unica) volta che questo è successo nella vita di Supermario.
Ma la saga continua. Terminata la parentesi da Dg del Tesoro diventa vice chairman e managing director di Goldman Sachs a Londra. Un ruolo di rilievo che non lo mette al riparo dalle critiche. Una su tutte: la vendita di derivati alla Grecia per “imbellettare” i bilanci per entrare nell’euro. È bene ricordare che il combinato disposto tra titoli tossici e spese folli per le Olimpiadi del 2004 costarono ad Atene la famigerata cura “lacrime e sangue” imposta dalla Trimurti Fed, Bce e Ue. Un disastro di cui Draghi sarebbe in qualche modo correo, visto il suo ruolo nella banca d’affari.
Nel 2005 viene chiamato a sostituire Antonio Fazio in Bankitalia, un ruolo che manterrà fino al 2011 quando diventerà presidente della Bce. Da quel momento Draghi si trasforma sostanzialmente in santone, si fondano chiese in suo nome. E in effetti bisogna soltanto rendere onore al suo ruolo a Francoforte: il suo quantitative easing, preannunciato dal “Whatever it takes” divenuto iconico è uno dei passaggi chiave della storia di questo Millennio.
Con il suo bazooka, Draghi ha salvato in primis l’Italia e in secundis tutti gli altri paesi più deboli da un attacco coordinato dei famosi “avvoltoi” contro i debiti sovrani. Conosceva il settore, conosceva gli attori, ha saputo usare le armi giuste.
Terminato il suo mandato alla guida dell’Eurotower, Draghi ha mantenuto lo status riservato ai semi-dei. Ogni volta che la situazione si faceva complicata dal punto di vista politico, spuntava il suo nome. A marzo dello scorso anno, mentre i militari trasportavano le bare dei morti da Covid, si diffuse la notizia che sarebbe stato lui a prendere in mano la situazione, almeno come factotum al posto di Arcuri e/o Colao.
Non accadde, purtroppo. E sappiamo tutti com’è andata a finire. Ora non resta che guardare con fiducia alle prossime mosse. Draghi non è un eroe e non potrà neanche risolvere tutti i problemi del nostro Paese. Ma ci ridà in un colpo solo tutta (e anche di più) la credibilità persa con una crisi di governo che in pochi hanno compreso. Come inizio, non c’è male.
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