Quale resistenza è possibile?

 Il nucleo autentico del processo politico e sociale che stiamo vivendo è l’informazione. Essa si mostra non soltanto come un vero e proprio potere, ma come il potere più forte, di gran lunga superiore a quello politico, le cui dimensioni e il cui raggio d’azione sono da tempo globalizzate. Infatti, chi detiene in ultima analisi questo potere è un gruppo ristretto di aziende che prosperano grazie al monopolio del settore dell’informatica, e i cui affari non conoscono confini. Si tratta di un settore dell’economia che da circa vent’anni ha raggiunto il primato su tutti gli altri. Un settore che ha incarnato la nuova forma di capitalismo definita da Shoshana Zuboff capitalismo della sorveglianza, il quale prospera grazie all’enorme massa di dati fornita quotidianamente da noi utenti connessi alla rete. L’informazione è un tutt’uno con questo settore dell’economia, ne incarna la necessità di controllo e condizionamento. Ha finito per avere a disposizione strumenti talmente pervasivi e capillari da trasformarsi in strumento di orientamento dell’opinione pubblica, di vero e proprio modellamento dei comportamenti, con una efficacia mai avuta prima d’ora.

Chi detiene il potere dell’informazione innanzitutto è in grado di orientarne l’intero apparato: dalle televisioni, alla carta stampata, a internet, imponendogli un’unica direzione, un unico scopo. Manipolare e dirigere l’opinione pubblica è l’essenza di tale potere, mostrando e amplificando i fatti, oppure sminuendoli e oscurandoli. Anche nel fornire interpretazioni dei fatti, esso presenta all’attenzione della gente una molteplicità di opinioni spesso contrastanti e senza alcun vaglio critico: si mescolano pareri di esperti autentici con opinioni di ciarlatani. In tal modo, il potere dell’informazione riesce ad abolire ogni differenza tra verità e falsità: così si diffonde la convinzione che non si possa mai riuscire a distinguerle. Piuttosto che pensare che questa sia una condizione creata ad arte dall’informazione, il pubblico è portato a credere che sia uno stato naturale delle cose. La confusione non è il solo effetto: da essa nasce la convinzione che sia impossibile esercitare alcuna critica da parte del pubblico. L’informazione ha rinunciato a qualunque tipo di vaglio, in nome di una assoluta libertà, di una assoluta uguaglianza, che non distingue più tra opinioni infondate e idee autentiche. Il pubblico, in balia di questa assoluta libertà dell’informazione, si convince che non abbia senso esercitare alcuna riflessione critica.
È facile comprendere che un simile concetto di libertà, nel quale è assente anche il più elementare principio correttivo, si muta immediatamente in tirannia. L’informazione finisce per diventare un mero stimolo emotivo, fomentatrice di reazioni irrazionali, in cui non contano più i fatti o l’autorevolezza delle opinioni, ma l’efficacia simbolica delle parole, degli slogan, delle immagini. A ciò si aggiunge la frammentarietà nella presentazione delle notizie: i fatti sono sempre irrelati, legati all’immediatezza, e solo con fatica si riesce a ricostruire una connessione tra di loro. Il quadro d’insieme resta sempre per lo più oscuro. Ma il mettere assieme, lo stabilire connessioni è la caratteristica più propria della riflessione critica.
Ecco quindi che, a livello sociale, piuttosto che un dibattito costruttivo, un confronto razionale tra idee, nascono fazioni, schieramenti: ogni questione diviene divisiva, crea gruppi opposti il cui unico scopo è quello di odiarsi a vicenda.
Attualmente i due schieramenti sono quello di chi inizia vagamente a sospettare qualcosa, ma senza avere ancora ben chiaro il quadro complessivo di quello che sta succedendo, guidato unicamente da una istintiva difesa della propria libertà personale; e quello di chi crede in modo timoroso e passivo, avendo per stanchezza e disperazione capitolato di fronte alla negazione sistematica di ogni certezza, all’impossibilità di esercitare qualunque facoltà di critica.
Questo potere, privo com’è di ogni limitazione, di qualunque messa in discussione sul piano del diritto e della politica, ha attualmente eroso ogni altro diritto. Le libertà personali, come il diritto alla libertà di movimento, o alla scelta della cura sanitaria; i diritti sociali, come il diritto al benessere economico, all’istruzione, o alla salute; le stesse garanzie costituzionali, dal momento che i poteri dei singoli amministratori locali eccedono sistematicamente la sfera delle loro competenze, generando un’abitudine all’abuso alla quale ormai ci siamo assuefatti.
Sul piano del diritto, ovvero della difesa di quei diritti secolari messi in crisi dal potere dell’informazione, le sentenze dei giudici e le pronunce dei tribunali possono ben poco: come si vede sempre più spesso, vengono semplicemente ignorate nelle disposizioni emanate dall’apparato politico. Il quale si trova ridotto a una mera burocrazia: un apparato che vive grazie al sostegno che il potere dell’informazione gli conferisce e che mette al suo servizio la propria organizzazione. Tale apparato utilizza oramai il linguaggio fortemente emotivo e simbolico dell’informazione, avendo rinunciato a qualunque riflessione autenticamente politica.
Ma su cosa si fonda il potere dell’informazione? E soprattutto a quale tipo di violenza ricorre per imporsi, dal momento che ogni potere ha bisogno di un sistema di coercizione? Il suo potere si fonda unicamente sul numero delle persone che riesce a orientare, di cui riesce a plagiare le opinioni. Tale potere non può esercitare direttamente la violenza: ha necessità di non scoprire i propri scopi, il proprio gioco, pena la crisi di qualsiasi efficacia. La violenza viene così demandata allo scontro sociale: il controllo reciproco, la delazione, al limite, la violenza aperta sono atteggiamenti messi in atto tra i gruppi sociali, fomentati all’interno della società stessa. Basti pensare a come vengano dipinti dall’informazione ufficiale coloro che non si assuefanno alle limitazioni e alle imposizioni: sono apertamente definiti causa del contagio, ovvero “untori”. E storicamente la sorte degli untori è stata terribile: alla condanna e all’annullamento fisico sono sempre seguiti la diffamazione e l’edificazione di “colonne infami”, che conservavano per i posteri la memoria del loro abominio. Colonne che solo molto tempo dopo, quando le società erano ormai ritornate alla consueta lucidità, venivano rimosse con vergogna, considerate esempio di oscurantismo del passato. Un passato che tuttavia ritorna troppo spesso!

La possibilità di resistere

Ormai, anche il semplice uscire fuori casa comporta una lotta con noi stessi, uno stato d’ansia, una vaga angoscia. È qualcosa di impercettibile ma costante. Le mascherine, tenacemente incollate sulle facce di chi ci circonda, ricordano a tutti che non siamo più padroni delle nostre scelte: uscire fuori casa e camminare per la strada non è più un atto libero, perché sentiamo che può essere revocato in ogni momento, con una discrezionalità superiore a qualsiasi legge; perché in ogni momento possiamo essere soggetti a un controllo, a una interrogazione. E in molti oramai quell’esame della propria coscienza se lo fanno da soli. Ogni nostro passo è sospetto innanzitutto a noi stessi.
Viviamo insomma in un ambiente privo di norme certe e condivise, un ambiente in cui la discrezionalità e l’abuso generano tensione e angoscia illimitate. Ci sentiamo soggetti privi di ogni diritto, e per questo motivo tutti uguali e tutti ugualmente insignificanti. L’unica differenza che si può raggiungere all’interno di una tale massa deriva dall’obbedienza entusiastica agli obblighi che vengono imposti. È l’illusione di poter prendere parte a quel potere che ci opprime, diventarne i sostenitori e i controllori, in modo da salvarsi dall’annullamento dell’insignificanza.
Non c’è un angolo del pianeta che sia rimasto immune da questo processo. Per questo la resistenza diventa una necessità, qualcosa a cui non si può sfuggire, pena la perdita della dignità umana.
L’esigenza di resistere si fa ogni giorno più pressante, perché le imposizioni si fanno ogni giorno più lesive della libertà: arrivano a violare il nostro corpo, contraddicono il nostro istinto di conservazione. Ma quale tipo di resistenza, di opposizione può essere messa in atto a questo punto? Se il potere dell’informazione esercitasse direttamente la violenza, lo si potrebbe smascherare facilmente: le manifestazioni, la resistenza passiva, la disobbedienza civile potrebbero suscitarlo e così renderlo visibile, identificabile. Invece, ogni manifestazione, ogni opposizione e disobbedienza non fanno che rafforzare l’odio e le convinzioni del gruppo che al contrario sostiene e giustifica l’imposizione di tali obblighi e restrizioni. Probabilmente sono addirittura funzionali alla sua coesione, alla sua durata.
L’opposizione e la resistenza devono lavorare pazientemente sulle coscienze. Nello stesso ambito dell’informazione. Oggi il vero campo di battaglia è la coscienza, la consapevolezza individuale. L’opposizione e la resistenza devono far nascere in ogni cittadino la consapevolezza di un diritto importantissimo: quello ad una informazione onesta e corretta. Restando all’interno del sistema dell’informazione, rivelando le sue strategie, le sue falsità, distinguendo tra verità e menzogna. L’informazione non è un blocco monolitico, per fortuna, e offre la possibilità di creare uno spazio in cui progettare e garantire questo diritto, in cui portarlo all’attenzione di tutti.
Resistere, dunque. Aspettando che un giorno la politica riesca a riconquistare la propria dignità, a elaborare i correttivi necessari per limitare e indirizzare un potere così distruttivo.

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